La notizia è la competizione tra alcune donne dei quartieri di Napoli nell’organizzare per la propria figlia la più sfarzosa delle feste di comunione. Le chiamano “le spose bambine” e sono queste ragazzine, generalmente provenienti da famiglie molto povere, per le quali le madri sono disposte a indebitarsi di migliaia di euro pur di vincere la sfida con le proprie dirimpettaie.
Poi, su Youtube, intercetto lo stralcio di un intervento del grande fisico napoletano Emilio Del Giudice che ci dice che il male è proprio la competizione.
“La società e l’economia si sono costruite con leggi loro. La legge della biologia richiede la cooperazione, la legge dell’economia richiede la competizione. Quindi, in questo senso, l’economia è un fatto patologico, nel senso che genera patologia, che genera malattia.”
Ebbene, la competizione. Premesso che a mio modesto avviso in natura ci sono entrambe le cose, competitività e cooperazione, quello di cui voglio parlare è proprio questo continuo oscillare nella nostra vita tra l’una e l’altra, e di come la società moderna tenda a instillarle alternativamente nelle nostre coscienze a seconda dello scopo che si prefigge di raggiungere.
Io che sono cresciuto sulla strada la competizione l’ho imparata giocando a calcio nei vicoli o a basket su campetti sgangherati. Conosco quel fuoco che si ravviva ogni volta qualcuno lancia la sfida e pure quell’istinto di voler vincere a ogni costo, non importa se contro un amico, contro un nemico, un fratello o un padre. Conosco la volontà di infierire sull’avversario per ribadire la propria supremazia, conosco lo spirito e la rabbia che anima certi ragazzi.
Ma perché la società incentiva la competizione? mi chiedo. Lo scopo credo sia abbastanza semplice: perché la competizione può essere il carburante dell’economia. Le donne napoletane che competono per accaparrarsi il titolo di comunione più fastosa per la propria figlia muovono un enorme quantitativo di denaro, come coloro che acquistano auto sempre più grosse e voluminose, spesso indebitandosi fino all’inverosimile, al solo scopo di potersi mostrare per le strade della propria piccola cittadina. È la competizione dell’avere che fa girare il volano dell’economia e che le aziende incentivano con una lenta ma costante opera di persuasione che si perpetra tramite la pubblicità. Sei quello che hai.
Ma la competizione avviene anche e soprattutto nel mondo delle aziende e ne esistono di tre livelli. Per produrre efficienza è necessario che competano gli individui all’interno di un’azienda, che competano le aziende fra loro, che competano i sistemi industriali nazionali.
Ma quanti individui dalla competizione sociale vengono schiacciati? Per ogni vincitore quante sono le vite andate in malora o triturate da questo meccanismo disumano che non conosce esitazioni?
Uno studio sviluppato sugli animali ha rilevato come la competizione sia più frequente tra le cavie da laboratorio piuttosto che tra gli animali in cattività. Come se pure le cavie da laboratorio, a sentirsi a un passo dalla morte, percepissero la loro condizione di solitudine, una condizione universale. Gli animali in cattività invece è più frequente che siano collaborativi. D’altronde la teoria dei giochi di Nash ha dimostrato come in determinate condizioni la strategia collaborativa sia più vantaggiosa di quella competitiva: due somari legati alla stessa corda inanellata a un palo potrebbero avvicinarsi a turno alla greppia e mangiare entrambi, invece di tirare senza che nessuno ci riesca.
Superare quindi questa competizione per poterci scoprire più umani, e contraddire la società che si muove in senso esattamente contrario, incentivando le competizioni più futili e stupide: ecco, questa potrebbe essere la ricetta.
“Finché esiste un regime fondato sulla competizione tra gli esseri umani – conclude Del Giudice – il problema della salute e della felicità non potrà mai essere risolto.”
Stefano Crupi
stefanocrupi@hotmail.com