LA FINE DI DAVID

Si chiamava David.
Era venuto dal Ghana, Africa occidentale, sbarcando a Lampedusa nel 2005. Una volta giunto a Palermo aveva lavorato per un periodo nelle serre di un piccolo imprenditore, per poi recarsi a Foggia per la raccolta dei pomodori. Finita la stagione estiva però non poteva restarsene con le mani in mano, perché pare avesse una famiglia in patria e dovesse provvedere economicamente a tutte le spese. Quindi, raccolto i suoi pochi stracci, si era recato a Rosarno, in Calabria, per la stagione di raccolta delle arance.
In quegli anni c’era una fabbrica dismessa, sporca e diroccata, e sembra che molti braccianti fossero soliti dormire lì. E così fece anche David. Riuscì a procurarsi un cantuccio dove dormire e posizionare la sua roba, tra le lamiere di quello stabile pieno immondizia e scarti di produzione.
A Rosarno, si sa, la vita è dura. E il lavoro anche peggio. Si lavora sia sotto il sole che sotto la pioggia. E così fece David, che ogni mattina si recava a San Ferdinando per essere arruolato a giornata dai caporali e finire a raccogliere arance nella piana di Gioia Tauro.
Un euro a cassetta. Così veniva pagato. E dai soldi che riusciva a guadagnare ogni giorno doveva sottrarre una percentuale per il caporale, una per il passaggio in macchina di andata e ritorno, e infine qualche minima spesa per mangiare.
L’Europa è bella solo in tv, per le persone come David. Da Lampedusa in poi, infatti, il sogno svanisce e la realtà si rivela solo un muro di sacrifici contro il quale andare a sbattere, chiedendoti se non fosse stato meglio restare nel proprio paese.
Come accadde a Foggia, così accadde a Rosarno: finì la stagione, e con questa finì il lavoro. Bisognava partire di nuovo, verso nuovi territori dell’Italia meridionale, in cerca di lavoro. A nero, mal pagato, ma se non altro lavoro.
David stava ancora raccattando i suoi quattro stracci, quando un suo connazionale gli suggerì di recarsi a Castel Volturno, in provincia di Caserta.
“C’è lavoro?”
“Poco, ma se non altro si può trovare una stanza a poco e ci sono molti altri ghanesi. Ci si sente meno soli lì”.
E fu così che David, poche ore dopo, salì sul treno che passava per Rosarno nella sua corsa verso Napoli. Una volta lì, gli fu spiegato, arrivare a Castel Volturno è facile. Basta prendere un autobus.
David arrivò sul litorale domitio nel marzo 2006, e nel giro di pochi giorni aveva anche trovato una stanza da condividere con un suo connazionale. La mattina si recava alle rotonde in cerca di lavoro a giornata, e la sera tornava a casa con le forze appena appena necessarie per cucinarsi qualcosa di veloce, fare la doccia e mettersi a letto.
Una quotidianità triste, se vogliamo, piena di sacrifici. Però era sempre meglio che spostarsi da un posto all’altro seguendo la geografia delle raccolte stagionali, e quindi David decise che a Castel Volturno ci sarebbe rimasto per un po’.
Per la precisione ci rimase fino al 10 agosto del 2010. Il giorno in cui morì. Nel bagno di un lido balneare, accasciato per terra e solo come un cane.
Quel lavoro, presso la stazione balneare, gli fu procurato da un suo connazionale, Kathis, che lavorava lì già da qualche mese. Il lavoro non era particolarmente pesante, soprattutto se paragonato a quello nei campi dell’agro aversano o ai cantieri dell’hinterland napoletano, però era pagato male e non si fermava mai. Il datore di lavoro aveva concordato per 20 euro al giorno, e David doveva cominciare a lavorare alle 6 del mattino per finire poi 18 di sera. Nel resto della giornata e durante la notte, comunque, non doveva uscire perché il suo compito era anche quello di custode. In cambio di un posto letto, ovviamente: uno sgabuzzino di 4 metri quadrati di fianco ai bagni del bar.
David lavorava sodo e si accontentava, finché però cominciò a non stare più bene. Avvertiva dolori al petto, era stanco, gli girava la testa. Sempre più spesso. Ne parlo dunque con il suo collega, Kathis, che chiese al datore di lavoro di poter accompagnare il proprio amico al pronto soccorso. La risposta fu negativa: “vedrai che gli passa…”. E gli rifilò un paio di aspirine. Giusto per pulirsi la coscienza.
Nei giorni successivi però David stava sempre peggio, e Kathis provò nuovamente ad insistere col datore di lavoro, che questa volta si dimostrò veramente infastidito.
E fu così che David pensò anche di chiamare l’ambulanza. Aveva bisogno d’aiuto. Quando però il datore di lavoro lo venne a sapere andò su tutte le furie: “…e cosa dici a quelli lì? Tu qui non dovresti neanche esserci. Non hai documenti, e lavori pure senza contratto!”.
Ma se non altro David, con la sua idea di chiamare l’ambulanza, un risultato lo ottenne: il datore di lavoro chiese ad una sua amica dottoressa di passare a dargli un’occhiata. Questa arrivò dopo una mezz’ora, lo visitò alla buona in 5 minuti, e gli rifilò anche lei due aspirine.
Solo più tardi Kathis, il connazionale di David, venne a sapere che la donna non era neanche una dottoressa, ma semplicemente la cognata.
E David peggiorava, giorno dopo giorno. La mattina del 10 agosto non riusciva neanche ad alzarsi, gli girava la testa e si sentiva debole. Kathis inizialmente non ci provò neanche a chiedere al datore di lavoro di poterlo accompagnare al pronto soccorso, si limitò a dire al suo amico di restare a letto: avrebbe fatto lui la sua parte di lavoro.
Verso le 10 del mattino però David stava davvero male. Kathis, che era passato per portargli dell’acqua, capì che bisognava fare qualcosa e quindi si impuntò: doveva essere portato al pronto soccorso. Quando il proprietario del lido capì che questa volta proprio non c’era verso di fargli cambiare idea, cedette: lo avrebbe portato all’ospedale. Ma non subito, solo dopo che i clienti se ne sarebbero andati.
Kathis fu entusiasta di poter dire al suo amico che finalmente sarebbe stato visto da un dottore. Vero, questa volta. Doveva solo pazientare.
Gli ultimi bagnanti ormai stavano preparando ad andarsene, verso le 8 di sera, e quindi il datore di lavoro disse a Kathis di riferire a David di prepararsi per essere accompagnato in ospedale.
Kathis mise via gli attrezzi e corse verso lo sgabuzzino dove David dormiva, ma questo era vuoto. Provò quindi a chiamarlo. Ma nulla da fare.
Forse era andato in bagno, pensò, e quindi si portò verso la porta dei bagni del retro, perché a loro era proibito usare gli stessi bagni dei clienti.
David era lì. Ma andare in ospedale però non era più necessario: era morto.
Si era accasciato per terra, di fianco al lavandino.
David morì così. Come l’eroe sfigatissimo di un romanzo scadente. In un cesso. Solo. Senza nessuno a cui dire nemmeno un ultima parola.
Mentre il l’Italia era impegnata a prendere il sole e spendere la sua quattordicesima.

Gian Luca Castaldi
gianluca.castaldi@gmail.com

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