Lo ammetto. Mentre Akeem mi parlava e mi raccontava di sé, a un certo punto mi è venuto da ridere, mentre alzava le mani in aria e chiedeva “…should I stay or should I go?”.
Nella mi testa, quella domanda era seguita dal famoso riff di chitarra elettrica che rese famosa la canzone dei Clash. Non ce la facevo. Era inevitabile.
Ma giustamente Akeem poi mi chiese che avessi da ridere, dato che lui mi stava raccontando la sua tragedia.
Akeem arrivò in Italia nel 2002. Come tanti suoi connazionali.
Fu portato in un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Come tanti suoi connazionali.
Infine poi incontrò la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale, ottenne un diniego, e da allora sopravvive come può. Come tanti suoi connazionali.
La storia ormai la conosco così bene, che quando partono a raccontarla potrei finire le loro frasi. E questo, credetemi, è triste.
In Italia ce ne sono tanti di Akeem. Tantissimi. Sono quelli che non dovrebbero esserci, ma ci sono. E sono gli stessi che fanno in modo che sulla nostra tavola arrivino pomodori, arance e verdure, come fanno in modo che chi non ha soldi per fare lavori di muratura possa chiamare il famoso “amico dell’amico” che gli fa i lavori a basso costo. Per che l’amico dell’amico è anche il capomastro dei tanti, tantissimi Akeem.
E questo si sa. Lo sanno tutti. Quindi non annoierò nessuno con questioni già note.
Tuttavia, ascoltando Akeem mi chiedevo come facesse una persona tanto produttiva in Italia a non avere un riconoscimento come persona che c’è. Akeem c’è, ha un suo posto nella società, nel mercato, nella filiera agricola e via dicendo. Paga un affitto, lavora, paga biglietti del bus e fa le file alla posta. Come me. Se solo non fosse per il fatto che lui, ufficialmente, non esiste.
Akeem di fatto è un ectoplasma burocratico che vive tra noi, ma non è tra noi.
Ed è per tutto questo che oggi ho deciso di parlare di lui. Voglio che esista. Anche solo per i pochi che leggeranno questo articolo. E di Akeem voglio dirvi la cosa che oggi mi colpisce di più. Non sa se restare in Italia o andarsene.
Should I stay or should I go?, appunto. Tradotto: dovrei restare o andare via?
Lui non lo sa. Ma soprattutto, non sa se ne vale la pena. Molti di questi immigrati si pentono di aver lasciato tutto per venire in Europa, ma le sue motivazioni sono diverse. Gli altri parlano di un sogno che non si è realizzato, di avversità che ormai non li lasciano respirare, di nostalgia di casa. Ma Akeem no, lui vorrebbe restare.
E allora perché? Semplice. Akeem parla un Italiano perfetto. Di strada, ma perfetto. Lavora da anni, perché è un ottimo muratore. Ha un datore di lavoro che lo adora e lo tratta ormai come un figlio. I suoi vicini parlano bene di lui, e ogni tanto gli fanno assaggiare qualche specialità della zona.
Insomma, Akeem è quello che l’immaginario collettivo considererebbe un esempio d’integrazione. Se non fosse per il fatto che non esiste. Ancora oggi, per lo stato, Akeem non c’è.
Akeem è arrivato in Italia molto giovane, è cresciuto praticamente qui, e ora vuole mettere su famiglia. Ma mi guarda e mi chiede: “…ha senso mettere radici in un paese che non ti vuole?”. E forse ha ragione.
E lui mi insegna una cosa. Quest’uomo ama l’Italia, e lo ha dimostrato in tutti i modi. Cos’altro deve fare perché possa smettere di sentirsi un ospite indesiderato e magari considerarsi a casa?
E’ una gran bella domanda.
Gian Luca Castaldi
gianluca.castaldi@gmail.com