Arriviamo a Beirut (Libano) da Limassol (Cipro) con l’intenzione, poi, di andare a Tel Aviv (Israele).
La marina militare libanese ci scorta durante le ultime miglia di navigazione e fino al Beirut Marina dove avevamo prenotato un posto barca. Dopo vari controlli e lunghe e lente formalità, ci sequestrano i passaporti e ci consegnano quello che chiamano lo short pass ovvero un foglio di carta con un timbro valido 24 ore da rinnovare, quindi, ogni giorno per tutti il periodo di permanenza nel loro Paese. Una cosa non poco fastidiosa e questo solo e soltanto perché siamo giunti via mare. La barca invece non potrà muoversi dal posto assegnato e, quindi, dobbiamo abbandonare l’idea di navigare lungo le coste libanesi, almeno fino al giorno della partenza verso Tel Aviv … o così ci illudiamo.
“Non si può fare”. “È impossibile andare nello stato a sud”.
Terrore e perplessità negli occhi delle persone con cui parliamo o chiediamo, anche in ambasciata e consolato.
Lo chiamano “lo stato a sud”. Non riescono nemmeno a nominarlo, o forse non vogliono.
In realtà non ci sono fonti ufficiali che vietano l’ingresso in Israele provenendo dal Libano e quelle poche notizie che ci sono a riguardo non prendono mai in considerazione il viaggio via mare. Noi ci eravamo informati prima della partenza, tanto e bene, facendo tutte le verifiche del caso, ma nulla. Unico dato certo è che con passaporto contenente timbro o visto israeliano non è possibile entrare in 6 Paesi arabi, tra cui il Libano, mentre la presenza sul passaporto di timbri o visti di Paesi arabi o musulmani non costituisce di per sé un fattore ostativo e non è motivo di respingimento alla frontiera israeliana.
E tra l’altro a noi il timbro sul passaporto non lo hanno messo.
“Si ma le frontiere sono chiuse e se proprio volete andare nello stato a sud dovete passare attraverso la Giordania oppure, visto che siete in barca, ritornare a Cipro e ripartire da li”. “Non dite mai e per nessun motivo alla marina militare libanese che andate a Tel Aviv”.
Una mattina alle 6:00 molliamo gli ormeggi. Dopo i vari controlli e la restituzione del passaporto ci viene dato il permesso di salpare.
“Quale sarà la vostra destinazione?” “Limassol, Cipro.”
Ci rendiamo conto della follia della situazione ma comprendiamo bene che stiamo parlando di due paesi in guerra tra loro.
Andare a Cipro per noi significa aggiungere tante miglia al viaggio e per di più controvento e controcorrente quindi, usciti dalle acque libanesi (12 miglia dalla costa), decidiamo di invertire la rotta e dirigere la prua su Tel Aviv. Veniamo subito richiamati via VHF dalla marina militare libanese (ci controllano sul radar quindi) che ci esorta a riportare la prua su Cipro, ma, comunicando la nostra posizione ormai in acque internazionali, capiscono che non possono fare nulla.
Dopo una decina di minuti arriva la chiamata via VHF della marina militare israeliana (alcuni giorni prima avevamo avvisato, via mail, Israely Navy del nostro arrivo).
“Chi siete?”, “Dove andate?”, “Da dove venite?”
Comunichiamo i nostri nomi, i numeri di passaporto, diciamo che siamo diretti a Tel Aviv e che veniamo da Beirut. “Beirut?” Gelo, silenzio.
Poi ci dicono di dirigerci ad Haifa per i vari controlli. Da questo momento in poi, ogni 30 minuti, e per tutta la durata del trasferimento (10 ore circa) Israely navy ci chiama via VHF domandando i nostri nomi, i numeri di passaporto, la nostra posizione e la nostra destinazione.
Arrivati in prossimità di Haifa veniamo avvicinati da gommoni e navette militari che ci scortano e accompagnano fino ad un molo all’interno del porto dove ad aspettarci ci sono ben 11 militari, giovani, uomini e donne, e armati.
“Da dove venite?” “Beirut”. Gelo, silenzio.
Alcune domande poi sulla nostra nazionalità, la nostra età, le nostre professioni, e poi …
“Da dove venite?” “Beirut”. Gelo, silenzio.
Ancora altre domande, incrociate questa volta (eravamo in 7 a bordo),
“Come vi conoscete?”, “Che rapporti ci sono tra voi?”, “Perché siete qui?” e poi…
“Da dove venite?” “Beirut”. Gelo, silenzio.
Come se non ci credessero, come se non fosse possibile, come se si aspettassero qualcosa di terribile.
Iniziano poi i controlli a bordo. Una ispezione durata 4 ore, durante le quali hanno aperto ogni gavone della barca, ogni nostra valigia, ogni busta, ogni armadio, controllando tra attrezzi, vestiti, cambusa. Alla ricerca di droga, di un’arma o un di un arabo.
Ma, ovviamente, nulla. E più il tempo scorre, più cercano senza nulla trovare, più si tranquillizzano. Fino a quando si convincono del fatto che siamo effettivamente 7 turisti italiani amanti della vela.
A questo punto iniziano le domande su Beirut.
“Con chi siete andati in giro?” “Avevate una guida?” “Avete fatto amicizia con qualcuno?” “Avete parlato con qualcuno?”
Noi siamo un po’ in imbarazzo e ci rendiamo conto che dobbiamo mentire.
“Siamo stati sempre tra di noi, non abbiamo incontrato né parlato con alcun libanese”.
“Beh, ma una guida dovevate pur averla”.
Questa, per loro, è stata la cosa più difficile da accettare; il fatto che fossimo andati in giro da soli, senza una guida, un accompagnatore, in una città così pericolosa, o forse soltanto ignota.
“E siete stati anche in altre città?”
Si, in effetti eravamo stati a Biblos, Sidone e alcuni di noi anche a Tripoli, al confine con la Siria, ma non lo abbiamo detto, sarebbe stato troppo difficile, per noi da spiegare e per loro da capire.
Ci salutano, gentilmente e con il sorriso, e ci augurano buona permanenza in Israele.
Noi rispondiamo col sorriso e con gentilezza e tiriamo un grande sospiro di sollievo.
Mentre escono dalla barca e si allontanano, uno di loro si gira verso di noi, ci guarda e chiede: “Com’è Beirut?”
“Bella” rispondiamo quasi in coro e con la voce un po’ tremolante.
E lui: “Bravi. Io non la vedrò mai”.
E io, al pensiero di questa scena, ancora mi commuovo.
Giuliana Rogano
giulianorogano@gmail.com