Se si parla di evasione, i più penseranno a un film in televisione o al cinema o a una cena al ristorante (specialmente in questo periodo storico, in cui, per contenere la diffusione del contagio da cosiddetto coronavirus, le autorità preposte hanno deciso di limitare o precludere alcune delle più comuni attività sociali) oppure la mente andrà, in relazione al variegato mondo giudiziario, a una qualche clamorosa fuga da un istituto di pena del genere raccontato in un bel film del 1979 diretto dal regista Don Siegel e con Clint Eastwood nelle vesti del carcerato protagonista (“Fuga da Alcatraz”). In realtà nella stragrande maggioranza dei casi il reato di evasione, previsto dall’art. 385 cod. pen., riguarda casi di allontanamento arbitrario dalla propria abitazione o altro luogo di custodia (per esempio comunità di recupero, in genere per i tossicodipendenti) di colui che vi è ristretto in via cautelare, prima o nel corso del processo celebrato nei suoi confronti per reati di maggiore gravità (arresti domiciliari, di solito disposti per evitare che il soggetto commetta altri reati), ovvero, diventata definitiva la sentenza di condanna, in stato di espiazione della pena (detenzione domiciliare, misura alternativa al carcere per chi possa beneficiarne). Ciò è d’altra parte espressamente stabilito dal 3° comma dell’articolo sopra citato, che sotto questo aspetto equipara la classica fuga dalla propria cella con le lenzuola accuratamente annodate al più banale ma altrettanto classico: “Cara, esco un attimo per comprare le sigarette”. Tali allontanamenti arbitrari possono essere i più disparati, con una gamma di gravità sensibilmente differente, che va dal caso di colui che si allontani senza permesso dal luogo di custodia senza farvi più ritorno e rendendosi sostanzialmente irreperibile, a quello di chi venga trovato nella stessa strada di casa e a pochi metri da essa o nel cortile condominiale o persino sul pianerottolo antistante la propria abitazione. In tutti questi casi vi è tecnicamente evasione, essendo a tal fine sufficiente l’allontanamento senza permesso dal luogo di custodia o dalle strette pertinenze di esso, sia pure per un breve lasso di tempo e con esiguo spostamento fisico. Ciò nondimeno, la gravità del fatto sarà evidentemente minore, sino al punto di poter assolvere l’imputato per la particolare tenuità di esso, ritenere cioè, a norma dell’art. 131 bis cod. pen., che, pur ricorrendo tutti i presupposti oggettivi e soggettivi della fattispecie di reato, l’offesa al bene giuridico tutelato (l’amministrazione della giustizia) è di tale levità da non meritare una sanzione. Non insolito è poi il caso di colui che si allontani dalla propria abitazione per recarsi direttamente alla più vicina stazione dei carabinieri, ove chiede di poter fare ingresso o ritorno in carcere, preferendo tale più severo regime a quello di convivenza con la propria moglie o compagna (o, perché no?, marito o compagno! – non vorrei sembrarvi maschilista –), evidentemente divenuto a tal punto penoso e insopportabile. In questa ipotesi il “malcapitato” potrà essere mandato assolto sul rilievo che in effetti non ha inteso approfittare di alcuno spazio di libertà o manovra non consentito ovvero di sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine, se non per il tempo strettamente necessario di lasciare l’“inferno domestico” e raggiungere la più vicina caserma; sempreché, beninteso, non si trattenga più del dovuto al bar per calmarsi sorbendo una tisana o stordirsi con qualche whisky.
Antonio Riccio
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