IL GRANDE INGANNO DI STEVE JOBS

Andrò controcorrente (come al solito) ma a me la santificazione mediatica di Steve Jobs, il padrone della Apple, ha sempre lasciato sbigottito. Jobs è stato uno dei più grandi imprenditori di sempre. È riuscito a imporre al mercato un modello di prodotto innovativo, elitario, e trasformarlo in un prodotto di massa.

Un esempio di marketing perfetto a ben vedere, da manuale: solleticare i palati di coloro che intendono differenziarsi dalla massa con il più banale ma efficace degli inganni commerciali (think different). Il risultato? Una nuova omologazione per la massa. E un successo economico senza precedenti.

Ogni uomo tenta di avere qualcosa che lo differenzi dagli altri: quando non ce l’ha per natura, allora se lo compra. Questa dovrebbe essere la massima a campeggiare sulla tomba di questo genio commerciale, figlio dei nostri tempi globalizzati, self made man dell’era digitale.

Il successivo ruolo di guru, dell’illuminato che indica all’umanità una nuova strada, che si è ritagliato negli anni della sua sofferenza personale, rientra a mio avviso nell’evoluzione naturale di questo processo. Anzi, ne è il suo completamento. Ma è questo aspetto a suscitare in me le maggiori perplessità, perché personalmente non mi sono mai bevuto la favola del santone che sparge per il mondo la buona novella, non ci ho mai creduto veramente. E le ragioni sono abbastanza semplici: primo, non ritengo tanto buona la sua novella; secondo, il suo idealismo mi è da subito sembrato una copertura neanche tanto convincente.

Ho sempre trovato agghiacciante, oltre che scontata, la massima “siate affamati, siate folli” in cui molti si sono riconosciuti. Perché si tratta di un principio che suona ridicolo sulla bocca delle persone “normali”, intendendo per “normali” quella moltitudine che il successo non lo perseguono o non l’hanno imbroccato, per incapacità, per sfortuna o semplicemente per disinteresse. Esorta a farsi squali in un mondo di squali, a essere feroce e imprevedibile come un animale famelico.

D’altronde, Jobs si rivolgeva alla platea di Stanford, composta dai figli dell’establishment americana, da coloro cioè che da lì a poco sarebbero stati chiamati a sostituire i padri nei centri nevralgici di una società che si vagheggia meritocratica ma che, nella realtà, non lo è poi così tanto (se prendiamo come termine di paragone la società italiana, la meno meritocratica del mondo, non la finiremo mai di mitizzare gli Stati Uniti), e non, come i più hanno creduto, a ognuna delle individualità che l’avrebbero ascoltato su Youtube.

Sempre lo stesso inganno quindi: rivolgersi a un’elite e far credere a tutti di appartenerci.

Sul resto del suo discorso, beh, che dire: lo trovo semplicemente banale (seguite il vostro cuore, non fatevi intrappolare dai dogmi, blablabla). Più interessante il fatto che in nessuna delle sue massime sia rintracciabile alcun principio di egualitarismo, di giustizia sociale, di rispetto dell’avversario, di pace. E come si sarebbe potuto? Il Jobs pensiero è l’espressione più eclatante di quel sogno americano che qualcuno, ingenuamente, vede ancora avvolto da un’aura di romanticismo. Laddove la verità, ahimè, è decisamente diversa. La formula capitalista d’oltreoceano continua a riconoscere dignità di considerazione solo a ciò che ritiene economicamente vantaggioso e a esortare ognuno ad affermare la propria individualità a scapito di coloro che da questa affermazione vengono calpestati. I discorsi tanto edificanti che Steve Jobs ci ha consegnato non fanno altro che rivelare tra le righe le convinzioni di questo capitalismo cinico, che di queste glorificazioni si ciba per potersi perpetuare.

Stefano Crupi
stefanocrupi@hotmail.com

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