Non ascolto mai le radio “cantate”, bensì quelle “parlate”. Perché mi viene l’orticaria a sentir presentare degli ammennicoli del pop come canzoni d’autore. Il cantautore non è tale solo perché scrive testi e musica: cantautore è chi usa la forma canzone italiana. Sì, la canzone italiana è un genere, come lo sono blues, jazz e folk ad esempio. O meglio, lo era fino a quando il significato delle parole aveva importanza perché significava. Il cantautore è un poeta e spesso la musica diventa solo un pretesto, un mezzo di locomozione affinché le parole possano viaggiare più comodamente e più in fretta. La musica diventa quel po’di zucchero che rende le parole vere meno amare, se amara è la vita; così amara, magnifica, immensa da non poter fare altro che essere condannati a cantarla. Canzoni di vino, di fughe, di amori assoluti che per colpa tua non torneranno mai più. “Il tuo viso esiste fresco mentre una sera scende dolce sul porto. Tu mi manchi molto, ogni ora di più. La tua assenza è un assedio ma ti chiedo una tregua prima dell’attacco finale, perché un cuore giace inerte, rossastro, sulla strada mentre un gatto se lo mangia tra gente indifferente…”. Stavolta non scriverò piccolo estratto da un brano di. Ma scrivo: tratto da “Adius”, un’immensa poesia di Piero Ciampi.
Piero nasce a Livorno nel 1934. Livorno, città marinara, solcata da “fossi”, muraglioni e “cantine”. Piero è amico degli scaricatori di porto, delle puttane, dei disoccupati, forse più di quanto possa esserlo dei suoi amici intellettuali come Carmelo Bene, Alberto Moravia e Mario Schifano. Come ad Amedeo Modigliani, anch’esso Livornese, a Piero non piace frequentare ambienti ipocriti ed altolocati; lui si mischia alla vita vera cercando di spalancare quella porta oscura che segna il passaggio verso la verità che si tocca. Spesso odiato da musicisti, scrittori, discografici, radio e televisioni per il suo modo di mandare tutto e tutti a quel paese, per il suo cantare che non è bel canto italiano, ma bensì si avvicina molto di più a quel modo di raccontare degli chansonnier francesi. Infatti, senza una lira, parte alla volta di Parigi dove comincia a frequentare L.F. Céline, dove conosce lo stile di Brassens e dove tutti lo cominciano a chiamare “Piero l’italianò”, perché solo i francesi possono storpiare così bene ed in maniera elegante un’altra lingua. Ma questo non importa, perché lo stanno ad ascoltare come solo i francesi sanno fare e lui si esibisce in piccoli bistrot che sono bettole; ma bettola in quella Francia significa soprattutto salotto culturale d’avanguardia, di parola, di poesia, di vino. “Come è bello il vino rosso rosso rosso, bianco è il mattino, sono dentro a un fosso. E in mezzo all’acqua sporca godo queste stelle, questa vita è corta lo sento sulla pelle…”. (Il vino – Piero Ciampi). Sì perché in Francia, oltre alla cultura del senso estetico delle parole nella canzone, impara la cultura del bere. Si beve tutto, ma è se stesso. È felice. E se bevi o non bevi, alle parole ed alla musica non frega niente. Il ritorno in Italia è segnato dalle prime produzioni discografiche, ma Piero è sempre sfuggente, sfugge a musica e a donne. Due matrimoni buttati all’aria nell’orrido della sua creatività che a molti può sembrare malsana, egoriferita, ma in fin dei conti il vero artista è un grande egoista. Solo chi è egoista può parlare di quello che ha dentro e quando trova un pubblico distratto lo manda a fare in culo: cosa impopolare ma sacrosanta. Non avrà mai successo, sarà difficile rintracciarlo perché Ciampi sfugge a quel nuovo modo di essere personaggio che la discografia italiana sta inventando; il cantautore diventa cantante, fustino di detersivo da supermercato. Sta volta non citerò discografia, perché di un poeta la poesia va letta e vissuta per sempre e sono i non poeti che la catalogano, che la traducono in matematica. In realtà, forse, Piero è stato uno dei più grandi matematici perché la grande sintesi del poeta è tradurre in una “formula” di poche sillabe dei concetti che si potrebbe starne a parlare per anni. Piero muore per un tumore nel 1980, l’alcool ha perso. Ed il mio grido per Ciampi si alzerà alto, immenso, libero, onnipotente, sfrontato, profondo, claudicante, affamato, stolto, pungente, sussurrato ma sempre vivo. Un grido di parola, di poesia, di insoddisfazione. Mai di insoddisfazione di vita, perché non è facile vivere in un giorno quello che qualcun altro vive in trenta o forse quarant’anni. Forse non vivrà mai. Sobbarcarsi il destino spirituale dell’uomo e dilaniarsi per descriverlo in una frase che tutti hanno pensato e che, però, nessuno ha mai scritto. Questo è il destino del poeta. La guerra del nostro Piero. Di tutti noi.
Riccardo Ceres
riccardoceres@gmail.com