Permettetemi una follia: è molto tempo che vago alla ricerca della città senza più la Reggia. Immagino da prima l’implosione dei marmi, decori sontuosi e radure aperte tra alberi perfetti, l’annullamento di quella dolce ossessione che spinge al rilassamento affidandone risoluzioni e speranze, riscatti urbani e ricchezza. “ Tanto ci pensa il Palazzo, il resto conta poco ”.
Percorro cupe ancora intatte e le strade dell’imbarazzo urbano, e provo addirittura a distogliere lo sguardo anche da quel panorama, segnato ora dal vuoto. Voglio dimenticare, andare altrove lì dove si accumula tutto il male, la sciatteria, l’approssimazione, il rimandare senza tempo, l’indifferenza o la troppa attenzione, volutamente distraente, per decisioni prese nei giorni di festa. Ne ho necessità per saggiare la capacità di questo figlio senza più padre, abbandonato finalmente alle sue sole capacità di resistenza, in assenza di certezze ovattate.
Voglio punteggiare sulla nuova mappa tutto ciò che è incompiuto, i monasteri abbandonati, gli squarci naturali e le cave in attesa, segni tortuosi di acquedotti, brani di suolo affondati nel tufo, campagna senza frutti, casali degradati, ciottoli medioevali divelti, serbatoi arrugginiti, paracarri di lamiera e recinzioni stuprate dai furti, conci di pietra che segnavano vigne introvabili, piste ciclabili che si interrompono contro un muro e muri meravigliosi scheggiati dal passaggio dei carri, conventi che ospitano pecore, lembi di cimitero dove annidano le serpi, le caserme con i graffiti dei condannati, affreschi di tempera, barriere mobili a protezioni di rotaie rimaste congelate nel tempo. E ascoltare la normalità dei quartieri più defilati, le facce del sacrificio, gli empori della modestia di una spesa sofferta. L’altra città, insomma, quella che nulla ha a che fare col Palazzo, con quell’esubero di spazi, stanze, cieli inquadrati dal piombo dei vetri, soffitte e cantine, pur sempre luogo del privilegio.
Questa città (come tantissime altre) è condannata alla moltiplicazione delle “competenze”, alla spartizione, sezionata come se poi fosse davvero possibile farlo con un organismo che nei fatti, nella vitalità del suo essere, risulta inevitabilmente unitario e compatto. E allora, tanto vale sottrarre, cominciare a scorporare del tutto le presenze più soffocanti, lasciare respiro alla non_eccezionalità e al dignitoso quotidiano senza pretese. Tutto ciò non è certamente riduttivo, non ha il significato della rinuncia e dello schiacciamento. Io amo i luoghi che, costantemente e diffusamente, rilasciano serenità ed efficienza ovunque, come il corpo che non avverte se stesso in assenza di dolore. Lì dove non ritrovi l’accumulazione dell’impenetrabile ma la sinuosità del percorrere senza ostacoli. Poi, magari, ma se proprio ricompare all’orizzonte, va bene anche donare agli occhi un’inaspettata bellezza.
Non restare, come ora, costantemente fermi e con la bocca spalancata davanti al sogno.
Raffaele Cutillo
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