LA PROSSIMA STAZIONE

A volte mi chiedo che ci sto a fare alle 9 e 30 del mattino in un tram. Non mi riconosco più. Una volta avrei lottato per la mia condizione, invece più vado avanti negli anni e più mi accorgo di essere stato istituzionalizzato; come quelli che devono scontare cinquant’anni di galera ed il tempo passa e passa e poi alla fine della galera non ne possono fare a meno. Ero in un tram, l’estate era alle porte e anche se il cielo non era poi così terso se ne sentiva il profumo misto agli scarichi delle auto e all’odore secco di gomma bruciata. La gente non capisce che ci sono delle persone che anche se sono nel loro stesso stesso vagone in realtà non ci sono per niente. Chi è la gente lo capisci dalle facce, tutte fresche e belle incazzate. Ma quelli come me, che la notte prima sono scesi per l’ennesima volta all’inferno, non ce l’hanno neanche la forza di incazzarsi. Lavoro in un quartiere di vecchi. Vecchi ricchi, e se per caso uno di questi giorni ci passate e trovate uno della mia età state tranquilli che non è più giovane di quei vecchi; talmente vecchio che se casomai dovesse cercare di raccontarvi una storia sarebbe una storia così vecchia che anche quei vecchi si gratterebbero la pappagorgia dalla noia. Sì, sono queste le cose che pensi su di un tram alle 9 e 31 del mattino, quando capisci che per pagare le bollette in parte hai perso l’ennesima notte precedente. Ed è uno dei rari momenti in cui riesci ad ascoltare veramente perché il tuo cervello finalmente può non pensare al nulla della gente che ti circonda e che non conosce il significato del buio. Ero lì. Anche lei era lì dopo lo scatto delle porte e mi chiesi perché alle 9 e 32 la vita continui a non darti tregua. In realtà è colpa della notte. La notte se ne accorge se non l’hai amata fino in fondo, se non l’hai accarezzata abbastanza di notte. Così la mattina ti manda gli spazzini a ripulirti il cervello dalle speranze di sogno ancora intrappolate nella birra lasciata a metà poche ore prima e dal risveglio generato dalla defibrillazione ai timpani degli uccelli delle sei meno un quarto del cazzo. E poi lei entra nella tua carrozza alle 9 e 32. Lo sapeva che la stavano guardando tutti, vecchi e giovani vecchi anche se non era vestita da puttana e non aveva le tette che le esplodevano nella maglietta. Lei sapeva che la stavano guardando tutti perché era la conferma che una nuova estate stava arrivando. La guardavo anch’io mentre lei osservava il fuori. Stava pensando e non pensava al lavoro, ai ragazzini da accompagnare a scuola, alla spesa, al cameriere filippino o a come cucinarsi il capo di turno; lei pensava e basta e si abbandonava ai riflessi dei vetri della carrozza, della nostra carrozza. Solo posti in piedi, ma anche se ci fossero stati sedili liberi lei sarebbe rimasta in piedi. Avete visto mai una musica, il mare, la luna sedersi? Tutto quello che è definitivo non si siede mai; rimane in piedi e si mostra essendo consapevole ed inconsapevole. Alle 9 e 33 ero consapevole che finalmente quel viaggio, il solito, stavolta era il più lungo della mia vita. L’eccitazione ti prende al mattino quando non hai dormito, quando non c’è stato ciclo ormonale, quando il corpo è stato solo cuore che pompa cuore. Lei si appoggiò alla passamaneria, aveva una busta in mano e, sempre guardando fuori, sorrise. Non aveva cuffie negli orecchi, nessun telefonino, nessuno spettacolo esilarante da guardare, non sapevo perché ridesse. Rideva assieme ai suoi pensieri o forse rideva di me, finalmente qualcuno aveva notato la mia goffaggine, perché alle 9 e 34 la mia goffaggine è perfetta ogni santo giorno. Feci un passo in avanti, lei chiuse gli occhi, io scostai una busta di broccoli di un vecchio che si asciugava la bava alla bocca. La baciai. Lei non disse niente, si tolse il sorriso, lo posò nella busta e si strinse ancor di più alla passamaneria come se aspettasse il carico pesante. Le nostre lingue parlarono di carezze. Rimanemmo lì, persi e presi, incagliati, insalivati. Tutti ci guardavano. Il bimbo indiano in braccio alla madre intuì qualcosa che poi avrebbe scoperto a scuola far parte della riproduzione, la lesbica fu felice di essere uomo e donna allo stesso tempo; la vecchia signora sentì indurire il suo capezzolo sinistro, l’unico rimasto dopo la mastectomia. Il nonno lasciò cadere il fazzoletto pieno di bava e pensò che, anche se amava ancora la moglie morta da anni, a casa c’era Ludmilla e un po’ gli si bagnarono le mutande. Lei chiuse gli occhi mentre il vagone sfilettava le rotaie, senza sorprese. Eravamo noi la sorpresa per il mondo intero. Forse anche per noi stessi. Chiuse gli occhi e forse già prima di essere lì stava pensando a me anche se ero brutto, anche se puzzavo di notte, anche se con quel vagone non c’entravo nulla. Il tram si fermò alla prossima stazione, le porte scattarono e lei aprì gli occhi. Li aprii anch’io. Lo faccio ancora.

Riccardo Ceres
riccardoceres@gmail.com

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