Il corpo sospeso a diecimila metri dal suolo, in avanti a 1000 km/ora con il tempo che ripete se stesso senza scampo. In basso fiamme di gas, fuochi fatui, solchi di piste nella polvere, cerchi di radure e specchi di ghiaccio, binari dritti come schiene di mannequins. La Siberia è uno spazio indefinito che rilascia storie incomprensibili, terrore e solitudine certa dove Natura Madre è la metropoli.
Solo dopo avere superato il limite degli Urali ti senti davvero ad Est. Al di qua la piana di Mosca è ancora familiare e ne hai riconosciuto battaglie studiate sulle pagine dei sussidiari, versi dei poeti, guglie dorate, polpacci possenti e quel cirillico che si confonde con la grecità. Qui è invece il limite, l’attraversamento che spiazza scoppiandoti dentro.
L’aereo plana verso la Mongolia, il deserto delle steppe gelide d’inverno con i grumi di tende d’animale, e ti si placano davanti grattacieli e fabbriche azzurre, moltiplicazione su moltiplicazioni tutte uguali.
Ecco, landed. Si è interrotto il movimento e resti a guardare intorno all’altezza familiare degli occhi. Ma lo sguardo non ti dice della lontananza, le forme delle cose sono intuibili e tutte riducibili alle figure elementari: un cerchio, il quadrato, rettangolo, l’intrigo di ogni triangolo.
La differenza è la voce, i suoni, l’interrogazione gutturale, l’inspirare di un assenso.
L’intesa difficile è il vero distacco.
Oltre lo scontato supporto di una qualsiasi altra lingua mediatrice (che sia inglese, francese o anche l’italiano), l’entusiasmo ansioso si manifesta nella incomprensione della parola e del suo senso profondo, a cosa possa associarsi, quali muri stia deflagrando nella mente. In tutto questo c’è la bellezza assoluta della non/globalizzazione, della meravigliosa diversità.
Il viaggio è dentro le anime sconosciute.
Spesso rimango da solo con il mio committente cinese, senza il supporto della traduttrice. Nessun linguaggio universale di possibile interazione: disegno, gusto del cibo, un gesto o il suono della musica. Fumiamo insieme e non scambiamo pensieri attraverso la voce, se non con gli occhi. Il cielo è pur sempre azzurro o nuvoloso, al sole del giorno o al nero della notte, le luci della città come quelle di sempre. Con le dita mi indica un edificio o una stella, le narici inspirano uno stesso profumo appena percettibile.
Poi il vuoto e un baratro incolmabile.
è lì dentro che voglio viaggiare, in quel mistero fatto di ritmi diversi della vita e del comportamento, esperienze sconosciute, radici ramificate in anfratti della terra mai esplorati. Lungo una linea di punti di vista eccentrici rispetto ai miei.
Raffaele Cutillo
cutillo@ofca.net