SMART CITY, DAL MODELLO INTELLIGENTE ALLA STUPIDITÀ PERPETUA

Nel 2050 saranno più di sei miliardi le persone che vivranno nelle città, pari al 70% circa della popolazione mondiale. I repentini mutamenti demografici degli ultimi decenni evidenziano la necessità di trasformare le aree urbane tradizionali in modelli sostenibili che siano in grado di rispondere alle esigenze, sempre più complesse, dei cittadini. Ovunque si sente parlare di smart city ma, al di là di classificazioni generaliste e superficiali, è opportuno approfondire gli aspetti e gli obiettivi delle città cosiddette intelligenti per poter approdare a una definizione chiara. La letteratura scientifica sull’argomento si è formata a partire dagli studi di Rudolf Giffinger e del gruppo di lavoro del CRS di Vienna che ha identificato sei dimensioni lungo le quali deve svilupparsi la smart city e che consentono, grazie a specifici indicatori, di misurare l’intelligenza urbana. Abbiamo, così: una smart economy, definita da sette fattori (spirito innovativo, imprenditorialità, reputazione economica, produttività, flessibilità del mercato del lavoro, radicamento internazionale, capacità di trasformazione); una smart mobility, delineata da quattro fattori (accessibilità a livello locale, accessibilità ai livelli nazionale e internazionale, disponibilità di infrastrutture ICT, sistema di trasporti innovativo, sostenibile e sicuro); una smart governance, anch’essa definita da quattro fattori (livello partecipativo del decision-making, servizi sociali e pubblici, trasparenza della governance, strategie politiche e prospettive); uno smart environment, composto anch’esso da quattro fattori (attrattività delle risorse naturali, inquinamento, protezione ambientale, gestione sostenibile delle risorse); uno smart living, con sette fattori (prodotti e opportunità culturali, condizioni di salute, sicurezza individuale, qualità abitativa, opportunità educative, attrattività turistica, coesione sociale); uno smart people, ancora con sette fattori (livello di qualificazione, propensione all’educazione permanente, pluralismo sociale ed etnico, flessibilità, creatività, cosmopolitismo/apertura mentale, partecipazione alla vita pubblica). Nonostante ognuno di questi assi sia formato da diversi e numerosi elementi, negli anni è attecchita nell’immaginario collettivo l’idea che una smart city fosse sinonimo di città tecnologica. Un errore comune che ha prodotto risibili risultati a fronte di enormi investimenti di denaro pubblico. Senza dubbio l’apparato digitale sorretto da una rete informatizzata di ultima generazione è una condizione necessaria alla realizzazione della città intelligente, ma non può essere il solo elemento fondante di questa. Anzi, molti studiosi hanno rimarcato la centralità del capitale umano e sociale, e, quindi, il ruolo primario svolto dal cittadino. Già nel 2012, Liviu Gabriel Cretu, project manager presso la Comunità Europea, dava questa definizione: “Una smart city è una città che opera in maniera progressista lungo queste sei dimensioni ed è costruita sulla combinazione ‘intelligente’ delle doti e delle attività di cittadini consapevoli, indipendenti e autodeterminanti”. Ne consegue che non si può avere una città “smart” senza cittadini “smart”. Se la questione dell’inquadramento teorico all’interno di una definizione dai confini certi resta insoluta, dal punto di vista pratico bisogna sottolineare come le smart city siano oggetto, già da tempo, di cospicui finanziamenti da parte dell’Unione Europea. Il vero problema, per la maggior parte dei centri urbani, non è solo la difficoltà (volontà) della maggior parte degli abitanti ad (di) assimilare e partecipare al modello intelligente, ma la capacità, in termini di competenze, delle governance locali che non sono in grado di intercettare e mettere a frutto i fondi europei. Non solo i nostri decisori politici sono impreparati ma non hanno nemmeno dotato gli enti che amministrano di quelle figure professionali e di quegli strumenti necessari per provare a convogliare i finanziamenti nei progetti di sviluppo urbano. E se da un lato, a causa del debito pubblico nazionale, che ha superato l’astronomica cifra di 2.600 miliardi di Euro, il flusso di denaro dai rubinetti statali verso i comuni è stato sigillato, dall’altro le tasse che gravano sui cittadini non riescono nemmeno a ripagare gli interessi sui mutui stipulati negli anni bui della liberalizzazione politica. Un flebile segnale di speranza viene dal mondo dell’associazionismo: cittadini che dinanzi all’immobilismo delle amministrazioni si sono autorganizzati con l’obiettivo di costruire proposte dal basso per migliorare la qualità della vita collettiva, facendo leva – più o meno consapevolmente – sui fattori che compongono le dimensioni della smart city. Il paradosso è che, spesso, questi organismi civici non vengono visti di buon occhio dalle governance locali, le quali vivono le idee e i progetti di rilancio come una minaccia a quel potere costituitosi nel tempo a furia di appalti e favoritismi. Il pesce, si sa, puzza dalla testa. E allora, per diventare intelligenti, prima che di cittadini “smart” le nostre comunità hanno bisogno di sindaci, assessori, governanti e decisori “smart”. In caso contrario, siamo costretti alla stupidità perpetua.

Gaetano Trocciola

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