“Solo i nomi distinguono le stazioni. La loro monotonia stinge sulla gente che d’un tratto diventa indistinguibile.” Dovevo arrivare a Berlino per conoscere le parole di Günter Kunert e la S-Bahn, la metropolitana sopraelevata che mi porta in fiera. Alla ITB riluce il mondo del turismo, seduttivo di promesse e gadget. Per arrivare al Messe faccio i gesti pendolari di ogni giorno: ci sono treni e stazioni, l’aria compressa apre e chiude le porte, noi umani intenti in piccole inezie. In questo posto c’è meno sole fuori, più birre dentro, ma si avanza sui tetti della città, per le strade, sui fiumi. Quando il treno è vicino a un abitato entri con l’occhio in un appartamento, dentro quella vita. Kunert scrive che un giorno dal treno tra due stazioni afferra una scena: nella stanza c’è un mobile scuro su cui si trova un cestino di porcellana bianca pieno di mele rosse, un uomo ne mangia una. Quell’uomo è lui, Kunert vede se stesso dal treno in corsa, mentre per continuare a guardare corre nel senso inverso al treno fino a perdere l’immagine.
Hanno cancellato il volo per Napoli, non immaginavo di sentire anche qui “scusate per il disagio”. Si parte solo via terra da questa nazione, penso, mentre guardo una mongolfiera levarsi sulla città.
Scrivo dal treno ora, Berlino-Praga scorre nella cornice del finestrino. Questo fiume è lunghissimo, si chiama Elba, Elbe in tedesco, Labe in ceco. Le case sulla riva come palafitte… Villaggi… Vapori. Carlo Levi andando a Berlino immaginava gli occhi che hanno guardato, con l’azzurra freddezza di chi si appresta a sganciare le bombe, un paesaggio così dolce. Ripenso alla città da cui vengo, a Hitler, il suo introvabile corpo fa parte della terra. Levi scrisse che aveva qualcosa di malinconico e di funebre Berlino, di costruito sul vuoto e sulle ossa dei morti. Anche ora, guardandola con gli occhi del nuovo secolo, piena di gru che rimarginano le rovine, si avverte la polvere del tempo e la fragilità del passato. Ho ancora bisogno di tenerla in me questa città, mentre mi allontano. Andando verso la Repubblica Ceca i palazzi e gli abitati si allontanano dai binari, stanno lì, impenetrabili modellini.
Herzberg… Röderau… Pieschen… Dresden… Praha.
Ps.: Francesco dice come si fa a vivere a Caserta una vita intera? In questa mattina di marzo, da questo treno, mi sembra oltre che reale, possibile. Immagino di passarci estranea. Il rettilineo di Lo Uttaro come se non ci avessi lavorato tanti anni su quella discarica, via Ferrarecce come se non ci abitasse mia madre ora. La chiesa di S. Anna al di là del passaggio a livello pieno di biciclette e motorini e persone e auto che aspettano. Oppure, venendo da Aversa, la Reggia d’improvviso, così dal finestrino prende tanto spazio.
Alla stazione una donna entra trafelata, cerca di farsi largo tra la folla che cammina nel verso opposto, mentre passa l’annuncio di un treno al binario tre, scende le scale del sottopasso, ancora una frazione di secondo, poi non la vedo più.
Grazia Coppola
gcoppola658@gmail.com