TENCO

Perché esistono le parole? Perché c’è bisogno delle parole? Non basterebbero solo occhi, orecchie, mani per toccare, bocca per assaporare, naso per inebriarsi? Le parole esistono perché esistono le donne e gli uomini e a volte delle cose è meglio scriversele; la memoria è labile e l’interpretazione spesso esalta o delude, suggerendo soluzioni sbagliate. Il pensiero è prolisso, la scrittura è sintesi e non lascia scampo. Per questo musica e parole sono indissolubili, non a caso si dice: “carta canta”. E poi le parole scritte hanno tutto, pensiero, sguardo di quando le si legge, tatto di quando le si scrive, sapore e suono di quando le si parla, profumo di carta ed inchiostro. Non si scherza con le parole, bisogna usarle con parsimonia, si potrebbe addirittura scherzare con l’amore, ma non con le parole. “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare…”. Piccolo estratto da “Mi sono innamorato di te” di Luigi Tenco. Luigi nasce a Cassine in provincia di Alessandria il 21 marzo del 1938, dubbi sul padre contadino che mai volle riconoscere il figlio e che morì in circostanze misteriose. Ben presto la famiglia si trasferisce a Genova dove Tenco frequenta il liceo scientifico e dove comincia a suonare piano, sax e clarinetto in piccoli gruppetti improvvisati. Chiaramente parliamo di jazz. Jerry Roll Morton, Chet Baker, Gerry Mulligan e Paul Desmond tra i suoi idoli; Lauzi, Paoli, De André, Gaber, Jannacci e i fratelli Reverberi tra i suoi amici. Dapprima in tournée con Celentano e Gaber, poi in un gruppo con Paoli denominato “I diavoli rossi”, comincia a formare il suo stile cominciando a comporre le sue canzoni in uno stile alla Nat King Cole con una verve jazz-swing. Assunto dalla Ricordi come pianista nel ’54 ha l’occasione di pubblicare il suo primo singolo, poi un 45 giri con brani scritti da altri e poi finalmente si concretizza il sogno di incidere su vinile le sue parole, quelle parole così importanti. Gli anni sessanta sembrerebbero essere quelli cruciali della carriera di Tenco, foriero di eventi che sembrano schiudergli le porte di quella fama a cui s’è sempre accostato con un misto di riluttanza e curiosità. Anche se in realtà il tentativo di vendersi sul mercato discografico come la voce più originale e fuori dal coro non andrà mai oltre un seguito limitato e una generica notorietà. Tenco attraversa impietosamente il ritratto della società italiana di quegli anni, il mondo asfittico della nostra canzone popolare. Oscillando stilisticamente fra l’esistenzialismo decadente e il pop-jazz da camera degli esordi e il folk impegnato della cosiddetta “linea gialla”, fra una malinconica, sconsolata rassegnazione e una sferzante, quasi nevrastenica ansia di sovversione e rinnovamento. “E lontano lontano nel mondo una sera sarai con un altro e ad un tratto, chissà come e perché, ti troverai a parlargli di me. Di un amore ormai troppo lontano.” (Tenco/Rca). Poi un periodo di esilio coatto acuisce ancora di più il suo rapporto contraddittorio con la celebrità: da una parte rivendica orgogliosamente la propria integrità artistica e morale; odia i personaggi, come gli antipersonaggi, qualcosa di costruito, uno stereotipo fatto in serie. Tre i suoi dischi: Luigi Tenco (Ricordi), Luigi Tenco (Jolly/Joker), Tenco (Rca), e le solite raccolte dei discografici che comunque devono continuare a mangiare, anche la carne putrefatta. Giunti all’epilogo, Tenco vive il suo vero amore con Dalida. La Rca lo spedisce a Sanremo in coppia con la stessa cantante con il brano “Ciao, amore ciao”, odiata dall’autore, che naturalmente viene bocciata sia dalla giuria che dal voto popolare. Tenco torna in camera, Dalida lo raggiungerà in seguito e sarà proprio lei a dare l’allarme. Luigi viene trovato morto nella camera 219 dell’hotel Savoy di Sanremo con una pistola ai piedi del letto ed un messaggio: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”. I condannati fanno anche questo, perché il suicidio non è per forza vergogna. Poi gli hanno dedicato addirittura un festival, il “Sanremo Tenco” in cui chiaramente hanno consensi Motta, Mirkoeilcane e vince l’Italia degli ignoranti, venduti, stolti, disamorati, raccomandati; l’Italia delle etichette discografiche, dei talent, del pop, della trap, dell’accademia della crusca. Chi scrive è condannato, dall’Italia non da se stesso. Perché scrivere è la vera festa della liberazione, liberazione da quest’Italia. E accade ogni giorno, peccato che la festeggino in pochi. Sveglia.

Riccardo Ceres
riccardoceres@gmail.com

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