TIM ROELOFFS

PUTIN'S WAR, SATIRA E PROPAGANDA OUTSIDER

Abbiamo incontrato Tim Roeloffs nel ‘99. Andavamo a Copenaghen per un festival e una tappa del nostro Inter-rail la dedicammo a Berlino. All’epoca non c’era internet e i cellulari erano agli esordi, vent’anni fa. Non prenotammo da nessuna parte tanta era la fiducia che riponevamo nel destino, ma quella volta ci andò male e dovemmo accontentarci di un campeggio a quaranta minuti di autobus dal centro della città. Il secondo giorno che eravamo lì alcuni amici ci dissero che bisognava andare in Orianenburger Strasse perché c’era un casa occupata da visitare e così arrivammo al Tacheles, un edificio parzialmente diroccato, enorme, pieno di gente, occupato da artisti che vivevano lì, con turisti che andavano e venivano, muri pieni di graffiti e nell’aria una grande energia. Esplorando la struttura, a uno dei piani superiori, ci trovammo in uno studio d’artista. Sulla destra, accanto a una finestra, seduto a una piccola scrivania c’era un uomo che silenzioso ritagliava fotografie al sole. Attorno i suoi lavori, tutti collage fotografici. Non disse nulla. Ne comprai due per quindici marchi: “Berlin-Mitte II” e “Dimitroff Strasse”. Dopo quasi vent’anni, con Antonio, uno dei compagni di viaggio, guardandoli, ci siamo chiesti che ne fosse stato di quell’uomo, deciframmo la sua firma e cercammo il nome Roeloffs su Google. Poi gli ho scritto, ci siamo conosciuti e siamo diventati amici. Miracoli di internet. La sua tecnica è unica. Fotografa edifici, ritaglia palazzi, personaggi, oggetti, poi sovrappone i ritagli fino a comporre quelli che chiama “poster”: ricostruisce strade e compone scene buffe, con attori tratti dalla vita reale, protagonisti della storia moderna assolutamente decontestualizzati, ex leader comunisti per strada in auto, seduti al tavolino di un bar in compagnia del cane di Tim, abbracciati sul palco di un cabaret. Immagina una storia e la racconta attraverso una combinazione di immagini autoprodotte, fondendo insieme slogan di propaganda, street art, icone del passato recente e satira. È a pieno titolo incluso dalla stampa internazionale più accreditata tra gli esponenti della Outsider art, espressione con la quale si fa riferimento alla produzione artistica spontanea di talenti innati, estranei al mondo della formazione artistica e dell’arte convenzionale. Artisti d’impeto.

Di seguito un’intervista a Tim Roeloffs pubblicata sul numero 118 della rivista Raw Vision (www.rawvision.com) a firma del giornalista Jeffrey Wolf con la relativa traduzione.

FORBICI, TAGLIERINO E COLLA

Attraverso il fotomontaggio,

Tim Roeloffs racconta le storie

della sua città adottiva, Berlino

e del famoso squat artistico di Tacheles

in cui viveva

“La mia mente non è fatta per pensare al computer, devo avere il controllo totale dell’intero processo. Questo è il motivo per cui non guido né volo. Mi piace andare in bicicletta e prendere i treni. Voglio annusare, ascoltare e vedere il mio viaggio. Utilizzo solo forbici, taglierini e colla, questo è il mio computer".
Le convinzioni secondo le quali vive Tim Roeloffs, artista autodidatta, sono rimaste costanti negli ultimi venti anni. Timotheus Paulus Roeloffs è nato in Olanda, nel 1965. La sua famiglia aveva vissuto nella stessa fattoria per centinaia di anni, ma finì per lavorare in fabbriche tessili per salari bassi. Suo nonno, che amava bere birra e trascorrere le giornate nei bar giocando a poker, vinse una stampante, cambiando così le sorti della famiglia. Si tratta di un’eredità “coerente”, poiché parte dell’arte di Roeloff ora prevede la realizzazione di poster e serigrafie del suo lavoro.
Per dieci anni ha vissuto e lavorato all’estero – Spagna, Portogallo, Turchia, Egitto e Svizzera – insegnando tennis e fotografando sempre ciò che lo circondava. Poi un amico illustratore lo convinse a smettere di insegnare tennis e a vendere le sue fotografie.
Stanco di insegnare il rovescio sotto il sole cocente per ore e ore, Roeloffs era pronto al cambiamento. Durante il periodo della Guerra Fredda viaggiò spesso a Berlino e in altri paesi del blocco orientale, dal 1983 al 1989, ispirandosi al "Mondo Disney stalinista" che aveva vissuto. Quando nel 1989 crollò il muro, visitò di nuovo Berlino e rimase entusiasta da come l’arte sembrava essere ovunque. Nel 1992 vi si trasferì, esplorando le tecniche fotografiche - usando il suo bagno come camera oscura - e visitando i bar clandestini illegali dell’ex Berlino Est. Poi sentì parlare di uno squat d’arte chiamato Tacheles in un edificio che era stato un grande magazzino del 1900, rilevato e utilizzato dai nazisti, e poi parzialmente demolito dalla DDR. Era occupato da persone provenienti da tutto il mondo. Aperto ventiquattro ore su ventiquattro, con studi d’arte, un giardino di sculture, cinema, bar e sala concerti.
Tacheles era famosa come attrazione turistica e come simbolo della post-riunificazione e dell’inebriante cultura underground di Berlino.
“Tacheles è stato un esperimento sociale molto interessante. Gli abitanti portavano gli ideali e le lezioni di questo spazio nei loro cuori e nelle loro menti. Tacheles è stato un iniziatore per l’intera scena artistica di Berlino. Gli artisti andavano e venivano. Era un microcosmo del mondo creativo , un parco giochi e un esperimento di stile di vita”, racconta Roeloffs.
Tim fa completamente suo quel concetto e lo squat diventa il suo rifugio.
Ogni giorno girava per Berlino in bicicletta, documentando la street art nel blocco orientale. Trovava, tuttavia, frustrante il fatto che le immagini che vedeva non corrispondessero a ciò che voleva raccontare. Lui, per esempio, vedeva un grande pezzo di arte murale, ma su un edificio poco interessante, o un'auto Trabant dell'ex Germania dell'Est per strada, ma non davanti a un sorprendente muro di graffiti. È stato allora che le sue fotografie hanno iniziato a trasformarsi in quello che lui chiama "fotomontaggio": utilizzando forbici, taglierini e colla cominciò a creare i suoi motivi. Il suo processo nasceva dalle storie che voleva raccontare ed era anche un modo per esprimere l’ironia, la satira e l’umorismo che gli piacevano e per coinvolgere personaggi politici ed ex leader comunisti.
Inizialmente, il lavoro di Roeloffs utilizzava solo la fotografia in bianco e nero, poi nel corso dei decenni si è evoluto fino a includere il colore e strato su strato fino ad arrivare ad oggi. Ora i suoi lavori arrivano fino a 30 strati di collage sovrapposti.
Nel 2009, gli scout dell’azienda di moda Versace hanno scoperto il lavoro di Roeloffs. Hanno ritenuto che fosse una rappresentazione autentica di Berlino e perfetto per una linea di moda speciale che stavano sviluppando per onorare il fondatore Gianni Versace, un grande fan di Berlino.
“Non so nulla di moda... La vita reale è la mia arte, e gli odori di piscio e vomito sono radicati profondamente nella mia arte. È stato strano vedere le modelle camminare con indosso i miei
disegni... Non immaginavo come potessero mettere l’arte del fotomontaggio sui vestiti, ma lo hanno fatto molto bene e hanno comunque mantenuto la dimensionalità del mio lavoro".
Nel 2013, i restanti artisti che vivevano a Tacheles, compreso Roeloffs, furono sfrattati. L’iconico squat era durato 22 anni. I tentativi di ottenerne il riconoscimento da parte di musei e gallerie erano falliti. Gli speculatori immobiliari lo tenevano d’occhio, ma la città promise di mantenerlo come sito culturale. “L’edificio stesso è diventato la migliore opera d’arte di Tacheles. Ogni giorno nuove opere d'arte, slogan, disegni sui muri e nei bagni documentavano le persone che passavano di qui in un punto o nell’altro", dice Roeloffs.
Tacheles era stato la spina dorsale di Roeloff, un motivo per fare arte o per essere a Berlino o per essere vivo. Dopo lo sfratto alcuni artisti di Tacheles si suicidarono, altri iniziarono a bere molto.
Roeloffs fondò la Gallery Klassenfeind (Class Enemy) con un amico che aveva uno spazio vicino allo squat. Non era una galleria per mostrare lavori personali, ma per continuare l’idea di "arte come stato d’animo". Roeloffs iniziò poi un altro progetto, Kultur Botschaft Lichtenberg (Ambasciata culturale Lichtenberg) in un edificio di tre piani, con l’idea di condividere lo spazio con venti artisti. Dopo sedici mesi di preparazione, il dipartimento di pianificazione della città lo ha bloccato. Sembrava che l’immagine creativa che gli artisti occupanti avevano dato a Berlino non fosse più necessaria.
L’era degli anni ’90 era finita.
Qualche anno fa, un altro amico di Roeloff si è fatto avanti con uno spazio: un vecchio caffè della Germania dell’Est chiamato Bar 23. La coppia ha stretto una partnership chiamata Bluhende Landschaften Berlin che si traduce come “paesaggi in fiore” ed è uno slogan coniato nel 1990 dal cancelliere tedesco Helmut Kohl per descrivere una prospettiva economica futura per i nuovi Stati federali. Roeloffs cita lo slogan dagli anni '90. Il suo lavoro voleva rendere il mondo più colorato o almeno non più grigio. Le pareti della galleria sono piene di tag, disegni e slogan; raccontano la storia della città che Roeloffs ama così tanto. Per lui vivere a Berlino è “un paradiso in confronto al resto del mondo”.“Sugli schermi televisivi vediamo tutta la miseria del 2001. Ho visto i terroristi volare sulle Torri Gemelle. Abbiamo visto la morte e la distruzione che il Covid ha portato, la guerra di Putin in Ucraina, i Trumpers che prendono d’assalto il Campidoglio. Il Grande Fratello sta guardando. Alcune persone scrivono libri sull’argomento. Io cerco di fare arte. Trasformo il negativo in positivo in modo da poterci convivere. Mi piacerebbe spiegare l’intera situazione in un dipinto, ma non so disegnare, quindi faccio i miei montaggi. Mi ispiro ai graffiti che vedo sui muri di Berlino. Faccio arte su queste cose per ispirare”.
Quando gli viene chiesto a cosa sta pensando, risponde: “a chi sono gli eroi e a chi sono i terroristi. Il confine tra le persone del mondo non è tra le persone. È di sopra, di sotto.
La vita è meravigliosa, che privilegio poter fare arte in un paese libero! Posso pisciare sul mio governo, sul Papa a Roma, ma devo stare attento alla fazione radicale qui. Questo mi dà fastidio. Molto. C’è sempre un pelo nella zuppa”.

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