UN ESERCITO DI SOTTOMANSIONATI

Che nel mondo del lavoro di oggi una laurea non faccia più la differenza è cosa abbastanza scontata, che appare ancora più evidente spulciando gli annunci sul web: ricerche di laureate in filosofia o in lettere per posti di promoter e hostess si sprecano, come anche (addirittura) di laureati in chimica per un lavoro in profumeria. Vista la situazione attuale che vede tanti laureati a spasso, i datori di lavoro più spudorati non si risparmiano dal chiedere, nelle loro richieste di personale, diplomati o laureati indifferentemente, come se tra i due percorsi formativi non vi sia alcuna differenza.

Un tempo era scontato che lo stipendio di un laureato dovesse essere superiore a quello di un diplomato, semplicemente per il fatto che un laureato apportava nell’impiego che occupava un bagaglio di conoscenze di gran lunga superiore a un diplomato. Ai datori di lavoro, non disposti a predisporre per il neolaureato un percorso formativo, rimaneva la possibilità di impiegare un diplomato, magari con esperienza, remunerandolo in base a tale esperienza, ma ben sapendo di rinunciare alla preparazione superiore di un dipendente con la laurea. I laureati erano occupati in posizioni generalmente di responsabilità e dove c’erano maggiori possibilità di carriera.

Oggi le cose stanno molto diversamente: chiunque si laurei sa bene che sarà costretto per un periodo più o meno lungo (se non eterno) a svendersi, ossia a essere sottomansionato e di conseguenza sottopagato.

Le statistiche fornite dalle università (?!) parlano dell’88% dei laureati “impiegati” a 5 anni dalla laurea (solo 2 su 10 però con contratto a tempo indeterminato), ma non dicono di che tipo di impiego si tratti, ossia se la mansione svolta sia quella per la quale questi laureati hanno studiato. D’altra parte le università non approfondiscono perché lo scopo del dato fornito è palesemente pubblicitario. A causa di tale svendita di talenti, si è insinuata nelle menti delle persone la convinzione che un laureato, perché privo di esperienza, valga in fondo quanto un diplomato e pertanto che, da un punto di vista retributivo, non gli spetti quel maggiore guadagno che prima gli era garantito.

Le statistiche dicono che un laureato italiano guadagna il 27 % più di un diplomato, rispetto al 44 % della Germania, il 50 % della Francia e il 63 % del Regno Unito. Ma un diplomato italiano guadagna molto meno di un qualsiasi suo collega europeo.

Il discorso “flessibilità” all’interno di tale scenario appare quindi più che inadeguato, perché si può parlare di flessibilità solo in un mercato lavorativo con bassi livelli di disoccupazione e con una mobilità all’interno dello stesso comparto produttivo. Cosa che è quanto di più lontano ci possa essere dall’Italia. L’alta percentuale di dipendenti sottomansionati rappresenta una grossa crepa all’interno del nostro sistema-paese. Perché allora non accrescere il punto di contatto fra università e mondo lavorativo? Perché non rendere gli studi più pratici, coinvolgere le aziende, sia piccole che grandi, esortarle a investire nell’università per riceverne in cambio non solo personale ma anche progetti di sviluppo e di formazione?

A causa di tale svendita di talenti,

si è insinuata nelle menti delle persone la convinzione che un laureato,

perché privo di esperienza, valga in fondo quanto un diplomato.

Stefano Crupi
stefanocrupi@hotmail.com

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